mostra
02 Ottobre 2020 > 18 Aprile 2022
senzamarginePassaggi nell’arte italiana a cavallo del millennio
L’accesso alla galleria 1 è gratuito da martedì a giovedì.
galleria 1
curated by Bartolomeo Pietromarchi
lunedì chiuso
da martedì a domenica 11 – 19
la biglietteria è aperta fino a un’ora prima della chiusura del Museo
fino al 26 novembre alcune gallerie sono chiuse per allestimento.
Puoi consultare qui le mostre in corso
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per i giovani da 18 a 25 anni (non compiuti); per gruppi a partire
da 15 persone; giornalisti iscritti all’albo con tessera di riconoscimento valida; possessori biglietto d’ingresso La Galleria Nazionale, Museo Ebraico di Roma; con esibizione della tessera o badge di riconoscimento: Accademia Costume & Moda, Accademia Fotografica, Biblioteche di Roma, Centro Sperimentale di Cinematografia, Enel (per titolare badge e accompagnatore), FAI – Fondo Ambiente Italiano, Feltrinelli, IN/ARCH – Istituto Nazionale di Architettura, Sapienza Università di Roma, LAZIOcrea, Palazzo delle Esposizioni, Amici di Palazzo Strozzi, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Scuola Internazionale di Comics, Teatro Olimpico, Teatro dell’Opera di Roma, Teatro di Roma, Università degli Studi di Roma Tor Vergata, Youthcard
valido per un anno dalla data di acquisto
minori di 18 anni; disabili che necessitano di accompagnatore; possessori di EU Disability Card e accompagnatore; dipendenti MiC; accompagnatori e guide turistiche dell’Unione Europea, munite di licenza (rif. circolare n.20/2016 DG-Musei); 1 insegnante ogni 10 studenti; soci AMACI; membri CIMAM – International Committee for Museums and Collections of Modern Art; membri ICOM; giornalisti (che possano comprovare la propria attività); possessori della membership card myMAXXI; studenti e ricercatori universitari di storia dell’arte e architettura dell’Unione Europea, studenti delle accademie di belle arti pubbliche (iscritte AFAM) e studenti Temple University Rome Campus da martedì a venerdì (esclusi festivi); docenti IED – Istituto Europeo di Design, docenti NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, docenti RUFA – Rome University of Fine Arts; con esibizione della tessera o badge di riconoscimento: Collezione Peggy Guggenheim a Venezia, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Sotheby’s Preferred, MEP – Maison Européenne de la Photographie; il giorno del tuo compleanno presentando un documento di identità
La Collezione di arte e architettura del MAXXI rappresenta l’elemento fondante del museo e ne definisce l’identità. Da ottobre 2015 è esposta con diversi allestimenti di opere.
L’accesso alla galleria 1 è gratuito da martedì a giovedì.
galleria 1
curated by Bartolomeo Pietromarchi
A partire dal debutto nel 1947 con il gruppo astrattista Forma 1 e fino alla scomparsa, Carla Accardi (1924-2014) è stata una delle figure più originali dell’arte in Italia. La sua ricerca si è subito orientata verso il segno astratto, condensato sin dai primi anni Cinquanta nella sua cifra più caratteristica, un «nugolo» di segni allacciati gli uni agli altri e disposti su sfondi monocromi. A partire da metà anni Sessanta l’artista sostituisce alla tela un supporto di plastica trasparente semirigida, il sicofoil, su cui applica segni intensamente colorati che talvolta rivestono anche i telai retrostanti; tale gesto libera il segno nello spazio conferendo carattere tridimensionale a queste accumulazioni. L’indagine sul segno accompagnerà l’artista lungo tutta la sua carriera sino alle opere più recenti, come le due tele Bianco argento in mostra, su cui appaiono segni semplificati e geometrici, tipici dello stile della maturità.
Con le serie dei Rotoli e delle Tende in sicofoil l’opera di Accardi conquista lo spazio tridimensionale ed entra in relazione con la scala del corpo umano, sino a proporre, con Triplice tenda (1969-71), un confronto diretto con lo spessore esistenziale, psichico, politico, connesso alla nozione di habitat. Con l’uso della trasparenza e della luce Accardi mostra la possibilità di oltrepassare le tradizionali, rigide strutture della pittura (il quadro) e dell’architettura (la casa) e dei ruoli sociali che vi sono connessi, compresi quelli più direttamente legati a una condizione femminile da liberare e reinventare (non a caso allo stesso periodo risale la sua adesione al movimento femminista). Questi temi riaffiorano a distanza di tre decenni in Casa Labirinto, esposta per la prima volta a Palazzo Doria Pamphilj di Valmontone nel 2000, stavolta con l’utilizzo di un supporto di Perspex rigido che definisce la forma di un parallelepipedo attraversato da piani perpendicolari trasparenti su cui Accardi ha tracciato segni neri e grigi su fasce verticali. Come sempre per l’artista, lavoro pittorico, struttura architettonica e piano simbolico tendono a formare un unico ambito di esperienza. La «casa» diviene allora un luogo in cui immaginare nuovi modi di esistenza, all’insegna di un’aspirazione utopica di cui l’opera di Accardi si è fatta messaggera sottile e tenace fino all’ultimo.
Casa Labirinto, 1999-2000
vernice su Perspex, base in legno
Courtesy: Archivio Accardi Sanfilippo, Roma
Bianco argento, 2000
vinilico e vernice su tela
Collezione MAXXI
Bianco argento 3, 2001
vinilico e vernice su tela
Collezione MAXXI
Impegnato nel rinnovamento della scultura sin da metà anni Sessanta, figura tra le più note dell’Arte Povera, teorico e insegnante appassionato, Luciano Fabro (1936-2007) è stato uno dei protagonisti del panorama artistico internazionale. La sua ricerca si è concentrata su ibridazioni e accostamenti inediti di materiali, tecniche, suggestioni figurative e aspetti concettuali del linguaggio scultoreo, in un constante dialogo con la realtà storica e culturale del suo tempo.
La prima delle due opere in mostra, Enfasi (Baldacchino), consiste di una struttura orizzontale, realizzata a fasce alternate in lamiera di rame e alluminio, su cui sono disposti diciotto tondi metallici, ognuno recante un volto sbalzato come negli antichi clipei romani. Sospeso in alto, come appunto un baldacchino, il lavoro ha l’aspetto di un manufatto prezioso, di una copertura dagli echi sacrali e liturgici destinata ad accompagnare una processione rituale o anche a segnalare un luogo altamente significativo, quello in cui si trova lo spettatore.
Il secondo lavoro, Italia all’asta, appartiene a una serie tra le più note dell’opera di Fabro, quella delle cosiddette Italie, avviata nel 1968. Il ciclo, tradotto in materiali e soluzioni diverse, ruota intorno al tema iconografico della penisola italiana e compone un’acuta riflessione sull’identità nazionale, indagata nei diversi aspetti sociali, politici, storici. Nell’opera due sagome dell’Italia, una delle quali capovolta, sono realizzate in lamiera di ferro e appese su un’asta poggiata a parete – il nord dell’una congiunto con il sud dell’altra e viceversa, le isole maggiori unite al centro. Il titolo gioca sull’ambiguità fra il significato letterale dell’asta come «palo» che reca un’immagine, ricondotto da Fabro alla festa barocca, e quello metaforico che suggerisce la vendita all’incanto. L’origine dell’Italia all’asta risale alla metà degli anni Ottanta, momento d’avvio del processo di dismissione delle grandi aziende pubbliche e della stagione delle privatizzazioni che culminerà nel decennio successivo. In questo caso, i contemporanei eventi di Tangentopoli aggiungono un ulteriore livello di significato all’opera, che registra così il momento di profonda crisi del Paese.
Enfasi (Baldacchino), 1982
struttura in alluminio e rame
Collezione privata
Italia all’asta, 1994
ferro verniciato
Collezione MAXXI Arte
Fotografo, teorico, editore, curatore, animatore culturale, Luigi Ghirri (1943-1992) è una figura chiave della cultura visiva contemporanea. Attivo già dalla fine degli anni Sessanta, all’inizio del decennio successivo avvia una significativa sperimentazione intorno al medium fotografico, condotta anche grazie all’uso precoce e originale della pellicola a colori e accompagnata da una componente riflessiva che sarà sempre presente nel suo lavoro. La ricerca di Ghirri muove dall’indagine sulla sua terra d’origine, l’Emilia-Romagna, ed è centrata sulla definizione di una nuova strategia dello sguardo: la fotografia diviene lo strumento per indagare la realtà circostante, per dare visibilità a luoghi non conformi all’immagine di un’Italia stereotipata, per stabilire una nuova relazione con il territorio e rivelare il mistero più profondo che lo abita. Culmine di questo percorso è Viaggio in Italia (1984), progetto intorno al quale converge una nuova generazione di fotografi italiani.
Il nucleo di fotografie qui esposte proviene dall’archivio della rivista «Lotus International» con cui Ghirri pubblica nel 1989 il volume Paesaggio italiano. Il progetto è tra i più rilevanti della carriera dell’artista e testimonia un passaggio importante della sua attività: dopo i progetti di ispirazione concettuale, nel corso degli anni Ottanta la sua interpretazione del paesaggio si fa, infatti, più lirica e allusiva. In Paesaggio italiano Ghirri raccoglie una selezione di fotografie realizzate dal 1970, «montate» in una sequenza inedita. Nonostante la provenienza eterogenea, Ghirri vi ritrova un filo comune: «Un leitmotiv – scrive – che attraversa tematiche, spazi e oggetti» e che lega le fotografie in una sorta di «geografia sentimentale, dove gli itinerari non sono segnati e precisi, ma ubbidiscono a strani grovigli del vedere […] per sostituire al carico di già vissuto e già visto, uno sguardo che cancella e dimentica l’abitudine».
Sin dai primi anni Ottanta Yervant Gianikian (1942) e Angela Ricci Lucchi (1942-2018) costruiscono i loro film su pellicole d’archivio, recuperate e valorizzate per esplorare gli aspetti politici, storici e antropologici delle immagini in movimento e ridiscuterne le tradizionali categorie narrative. Tra il 1984 e il 1986 i due artisti realizzano Dal Polo all’Equatore basandosi sugli archivi del cineasta e documentarista Luca Comerio (1878-1940), ricchi di materiali filmati nel periodo tra le due guerre mondiali. Vi ritrovano temi come il viaggio, l’esplorazione, la conquista, la sottomissione culturale e religiosa delle popolazioni africane, l’avventura esotica, l’oppressione militare e coloniale. Per produrre i loro film gli artisti utilizzano una «camera analitica» costituita da due elementi: nel primo scorre verticalmente la pellicola originale 35mm, azionata a mano data la fragilità del materiale; il secondo, una camera in asse con il primo elemento, consente di rifotografare in trasparenza le immagini originali. L’opera – accompagnata in mostra da un grande «rotolo» disegnato e altri lavori su carta – solleva domande fondamentali sul rapporto fra cinema e storia: la funzione della parola e il ruolo del tempo reale (e del ralenti) nel film, il valore di testimonianza delle immagini documentarie.
Questa ricerca continua negli anni successivi in lavori come Uomini, anni, vita (1991) sul genocidio degli armeni di Turchia (cui sfuggì il padre di Gianikian) e nel progetto Archivi italiani, basato su film e immagini del ventennio fascista, con Il fiore della razza (1991), Prigionieri della guerra (1995) e Lo specchio di Diana (1996). Dopo Tourisme vandale (2001), sul colonialismo nascosto nella fascinazione per l’esotico, portano a compimento Oh! Uomo (2004) che smonta l’ideologia militarista della Grande Guerra attraverso una sorta di catalogo anatomico di corpi feriti e mutilati. Dopo la scomparsa di Angela Ricci Lucchi, avvenuta nel 2018, Yervant Gianikian realizza Il diario di Angela, Noi due cineasti (2018-19), un film in due parti sul loro lungo viaggio comune.
Dal Polo all’Equatore, 1984-1986
film 16mm trasferito in 35mm (101″) e in digitale (96″), suono, 4:3
Collezione MAXXI
Dal Polo all’Equatore, 1985
matite su carta
Collezione MAXXI
Dal Polo all’Equatore, 1982-1985
4 elementi, grafite su carta
Collezione MAXXI
A partire da metà anni Sessanta la ricerca di Paolo Icaro (1936) integra alla scultura una riflessione tanto sui suoi caratteri spaziali quanto su suoi aspetti temporali e mentali. Per Icaro lo spazio va esperito con il corpo e ricercato nel divenire del tempo, in una dimensione in cui progetto e caso, intimità e ironia si fondono in un continuo fare e disfare della forma e del pensiero. Dopo aver partecipato alle prime mostre dell’Arte Povera e alle principali rassegne internazionali della Process Art, a partire dagli anni Settanta segue un percorso indipendente, al di fuori di gruppi e tendenze, che lo porta in luoghi diversi – da Torino a Roma, da New York a Genova – seguendo il filo della sua personale esplorazione dei materiali e dei limiti del linguaggio scultoreo, sino alla completa decostruzione della forma.
Nel 1981 Icaro fa ritorno in Italia dopo un lungo soggiorno negli Stati Uniti; da questo momento nel suo lavoro torna centrale l’interesse per il «fare classico» della scultura e il gesso – materiale duttile e disponibile che permette di lavorare con una gestualità elementare e di assecondare la crescita organica della materia – diventa il materiale più congeniale alla sua ricerca. In Spiette, opera qui per la prima volta allestita a dimensione ambientale, Icaro punteggia lo spazio con 36 piccole forme di gesso nelle quali sono incastonati frammenti di vetro specchiante. Posizionate con diverse angolazioni, le Spiette restituiscono un’immagine frammentaria dello spazio circostante, in cui i punti specchianti tessono, di riflesso in riflesso, una invisibile trama di sguardi. Dal soffitto alle pareti, l’energia radiante si propaga a pavimento, dove sono disseminati alcuni elementi che segnano ulteriori percorsi di proliferazione ed espan-sione della materia. Il frammento per Icaro non rinvia a un’immagine o a una completezza irrimediabilmente perduta, ma contiene in sé la forza vitale del completamento futuro. È dunque continuità in potenza – del fare e di una identità culturale –, anelito a una unità ideale in cui passato e futuro vengono a coincidere nel presente, in quello spazio che per Icaro è «il sempre del tempo».
Spiette, 36, 1991
Installazione in situ, 36 elementi: gesso e vetro a specchio / Installation in situ, 36 elements: plaster and mirror glass
Collezione MAXXI / MAXXI Collection
Giunto dalla Grecia a Roma nel 1956, dove ha vissuto e lavorato sino alla scomparsa, Jannis Kounellis (1936-2017) è una delle figure più note dell’Arte Povera. Dalla seconda metà degli anni Sessanta in poi il vocabolario del suo lavoro si compone di materiali elementari (lana, carbone, oro, ferro, pietra, piombo, caffè, legno, ecc.), di fiamme libere, di calchi di statue, di mobilio e abiti, di piante e animali viventi, come nella memorabile esposizione di dodici cavalli alla galleria L’Attico di Roma nel 1969. Il ricorso a materie non tradizionali, così come alla musica o alla performance, consente a Kounellis di superare i limiti della scultura, di espanderla nello spazio e nel tempo in installazioni concepite come visualizzazioni di potenti flussi di energia plastica e simbolica. Con lo sguardo rivolto sia alla tradizione artistica e culturale che alle tragedie storiche e alle utopie del XX secolo, l’opera di Kounellis ha esplorato con grande intensità la dimensione antropologica e quella politica dell’esperienza di creazione, seguendo le direttrici di un lucido umanesimo e di una intransigente «passione per il reale».
L’installazione in mostra, Senza titolo, presentata per la prima volta a Todi e poi a Londra nel 2014, è tra le ultime realizzate dall’artista. Ad avvolgere lo spazio, su quattro pareti sono disposti dei «binari» formati da putrelle di ferro da cui spuntano grandi coltelli da macellaio con manici avvolti in carta da giornale, alle cui estremità sono, a loro volta, appesi cappotti neri ridotti a brandelli. Al centro dello spazio una singola «colonna» solleva altri lembi di cappotti. Il lavoro rimanda a diverse opere precedenti di Kounellis – come la serie di becchi a gas accesi disposti a parete (Parigi, 1969) o la carne macellata appesa a lastre di ferro (Barcellona, 1989) –, e si pone come un’estrema, pessimistica meditazione sullo scontro dialet-tico tra forze storiche e destino individuale, tra violenza e riscatto collettivo. Ha scritto Kounellis in un appunto del 1982: «Ricerco […] nei frammenti (emotivi e formali) la storia dispersa. Ricerco in modo drammatico l’unità, seppure difficile a cogliere, seppure utopica, seppure impossibile e perciò drammatica».
Senza titolo, 2014
ferro, coltelli e cappotti / iron, knives and coats
Courtesy: Estate of Jannis Kounellis and Sprovieri Gallery, London
Nata in Italia nel 1942, Anna Maria Maiolino si trasferisce nel 1954 con la famiglia in Venezuela e successivamente in Brasile, a Rio de Janeiro, dove dal 1960 frequenta la Escola Nacional de Belas Artes. Qui incontra artisti come Antonio Dias e Rubens Gerchman e viene in contatto con esponenti del movimento neo-concreto come Lygia Clark e Lygia Pape, avvicinandosi alla loro concezione – espressa nel manifesto Teoria do não-objeto di Ferreira Gullar – dell’oggetto artistico come un «quasi-corpo» che attiva una forma di conoscenza sensoriale. Questa filosofia, insieme con la fascinazione per la materia, influenza fin dagli esordi a fine anni Sessanta la pratica dell’artista. Maiolino si interroga sull’interazione tra spettatore e opera – solitamente di aspetto marcatamente corporeo come si vede anche in un suo lavoro più tardo, 7 + 1, série Objeto Escultórico (1999) – e sull’interazione tra diversi mezzi espressivi, interazione che emerge chiaramente nell’allestimento qui proposto e pensato appositamente per questa occasione espositiva.
L’attenzione per il corpo, in particolare quello femminile, e la commistione di linguaggi diversi in una stessa opera diventano evidenti nelle celebri serie Fotopoemação, fotografie in bilico tra poemi e performances che si collocano al confine tra generi artistici diversi. In É o que Sobra – série Fotopoemação (1974-2000), ad esempio, che richiama le coeve manifestazioni della Body Art internazionale, Maiolino simula la mutilazione di parti del proprio viso (lingua, naso, occhi), mentre il trittico Entrevidas (1981-2000) documenta la camminata dell’artista su una strada ricoperta di uova. L’uovo, simbolo di vita e fecondità, oggetto fragile ed effimero, simboleggia qui la precarietà della vita umana e della cultura, minacciate dalla dittatura militare (1964-1985) che spinse molti artisti a lasciare il Brasile. Di particolare importanza è anche il recente ritorno al disegno, nella veste di «segni antropomorfi» a metà tra scultura e grafica, come si vede in Sem título, série Marcas da Gota N (2010) e Sem título, série Interações (2013).
Claudio Parmiggiani (1943), uno degli artisti italiani più noti a livello internazionale, ha scelto per sé la condizione di «appartato», lontano cioè dai gruppi e dalle tendenze che hanno dominato il secondo Novecento, al punto di arrivare a definirsi, in uno dei suoi testi, uno «stilita», una figura eremitica. Sin dagli esordi a metà anni Sessanta, con la sua opera riflette sulla natura delle immagini, le loro radici culturali e le loro risonanze emotive, utilizzando una gamma ampia di materiali e di tecniche, dalla fotografia al calco, dal frammento all’impronta e all’assemblage. Temi ricorrenti del lavoro di Parmiggiani sono la solitudine, il silenzio, la memoria, un’attitudine che concilia la più profonda spiritualità e il materialismo più radicale. Le sue sculture d’ombra, come sono state definite, spesso evocano corpi e oggetti scomparsi, evitando sempre il puro gioco intellettuale che il più delle volte accompagna i temi dell’assenza e della traccia.
La sparizione, nella sua opera, ha sempre qualcosa di traumatico e spettralmente teatrale: allude alla scomparsa lacerante di cose e persone, bruciate dal rogo della Storia. A partire dal 1970 il materiale prediletto dall’artista è in effetti l’ombra, sfuggente e insieme lancinante, che proietta nell’ambiente con il metodo della «delocazione», cioè impiegando fuoco, polvere e fumo che rivelano la sagoma di oggetti assenti. Uno dei soggetti più di frequente «trattati» con questo metodo è il libro: forma simbolica dal valore culturale e sapienziale di lunga durata, ma anche solida entità materiale dalla ricca storia formale. Nelle biblioteche invisibili di Parmiggiani il libro diventa figura della mente e della memoria umana e, dunque, di tutto ciò che nel nostro presente non cessa di scomparire, di incenerirsi.
Senza titolo, 1998-2020
fumo e fuliggine su tavola
Collezione MAXXI
Pittura, fotografia e film sono state le tre modalità in cui si è sempre articolata la ricerca di Mario Schifano (1934-1998). Sin dai primi anni Sessanta l’artista è stato uno dei protagonisti della «figurazione novissima», vicina alla Pop Art, e un osservatore acuto dei simulacri della società di massa, resi in forme frammentarie e impersonali su sfondi monocromi che sembrano ricordare schermi cinematografici o televisivi. Dagli anni Settanta in poi il riferimento televisivo diventa sempre più importante, soprattutto con i Paesaggi T.V., sequenze televisive fotografate e poi riportate sulla superficie pittorica. Nel corso del decennio seguente, le tele-palinsesto di Schifano cominciano a popolarsi di immagini di un’attualità sempre più filtrata e saturata dai moderni mezzi di comunicazione. Nello stesso periodo, dominato dalla nuova sensibilità postmoderna, l’avvenuta riconciliazione con la pittura induce Schifano a realizzare opere impegnative, spesso di notevoli dimensioni, caratterizzate da una materia cromatica ricca e da segni liberi, selvaggi, affini a quelli delle contemporanee correnti neoespressioniste.
Nei dipinti qui esposti – in origine presentati a Roma nel 1990 nella mostra Divulgare al Palazzo delle Esposizioni e nel 1992 in parte danneggiati da un incendio – Schifano torna a meditare sul potere anestetizzante della televisione – insieme feticcio e ossessione personale – soffermandosi sull’esposizione costante a una overdose di immagini sempre più svuotate di significato. Emblematici, in tal senso, i tondi Chi e Dolore dominati dai profili sfuggenti di figure dagli occhi fissi ed evidenziati. Nel grande pannello intitolato Per Esempio Schifano sembra invece tessere un inventario privato di immagini tratte dai contesti più svariati, sovrapponendo riferimenti alla storia dell’arte (Andy Warhol, Giorgio de Chirico, Pablo Picasso), alla politica (tra gli altri i volti di Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov), insieme a immagini banali e ai bagliori indefiniti emessi dallo schermo televisivo. Nell’opera Segni, allo stesso modo, l’artista raccoglie una sorta di campionario di fotogrammi da video manipolati pittoricamente.
Dolore, 1990
tecnica mista
Courtesy: Collezione Jacorossi, Roma
Chi, 1990
tecnica mista
Courtesy: Collezione Jacorossi, Roma
Per Esempio, 1990
stampa su PVC e interventi a pittura
Courtesy: Collezione Jacorossi, Roma
Segni, 1990
tecnica mista
Courtesy: Collezione Jacorossi, Roma
Ritracciato, 1990
tecnica mista
Courtesy: Collezione Jacorossi, Roma
galleria 1
a cura di Bartolomeo Pietromarchi
CARLA ACCARDI | LUCIANO FABRO | YERVANT GIANIKIAN E ANGELA RICCI LUCCHI | PAOLO ICARO | JANNIS KOUNELLIS | ANNA MARIA MAIOLINO | CLAUDIO PARMIGGIANI | MARIO SCHIFANO
Nel decennale del Museo, inaugurato il 30 maggio 2010, un nuovo grande allestimento valorizza il progetto della Collezione, esponendo nella galleria a essa dedicata un nucleo di opere di nove maestri che rappresentano la vitalità e la diversità delle ricerche artistiche in Italia. Maestri non ancora presenti nella Collezione del MAXXI e che, grazie a un contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo in occasione di questo importante anniversario, entreranno a farne parte.
Allestite in una sequenza di ambienti immersivi che ne potenziano la carica rivoluzionaria, la forza e la monumentalità, oltreché la relazione con lo spazio, le opere scelte sono state realizzate da maestri italiani, o attivi in Italia, spesso considerati ai margini dei movimenti più conosciuti ma che negli anni hanno saputo mantenere una ricerca indipendente e originale, tali da essere considerati punto di riferimento per gli artisti delle generazioni successive.
IN MOSTRA
Carla Accardi
Luciano Fabro
Luigi Ghirri
Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi
Paolo Icaro
Jannis Kounellis
Anna Maria Maiolino
Claudio Parmiggiani
Mario Schifano
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Senza margine, fuori dai bordi, senza confini. Una playlist pensata per accompagnare il viaggio tra le varie opere e le stanze, seguire un percorso, ma anche fermarsi, tornare indietro e ripartire. Può essere presa come un flusso o come un singolo contrappunto delle opere esposte. Funziona in entrambi i modi, sta a voi capire quello che vi aggrada di più.
a cura di Emiliano Colasanti